È esperienza comune che cambiando modo di alimentarci cambia anche il nostro umore e poiché ciò che mangiamo influenza in modo radicale il nostro microbiota è plausibile che il nostro microbiota possa avere effetti sul nostro umore. Facendo eco al filosofo che diceva “siamo ciò che mangiamo” potremmo dire che siamo ciò che i nostri batteri mangiano. La relazione tra il nostro intestino ed il nostro carattere, il nostro stato d’animo e perfino la nostra intelligenza è talmente forte che alcuni Autori hanno cominciato a parlare di psycobiotic revolution e di psycobacteria.

Nel nostro organismo le cellule microbiche sono dieci volte più abbondanti delle cellule eucariotiche. Si tratta principalmente di batteri ma anche di virus e di protozoi che formano nel complesso quello che gli esperti chiamano il commensal microbiota o microbiota commensale. Nel solo intestino ci sono cento trilioni di questi microrganismi appartenenti a più di 10.000 specie diverse.

Come tante altre scoperte in campo scientifico, anche quella del microbiota umano ha contribuito a minare il nostro egocentrismo. Con Copernico abbiamo preso atto che il nostro pianeta non è al centro dell’Universo. Con Darwin ci è stato detto che l’uomo non è che un animale tra i tanti. E adesso la scoperta del microbiota ci mette di fronte ad un’altra evidenza: siamo fatti per la gran parte di piccoli organismi unicellulari

Scrive Michael D. Gershon nella prefazione del suo bellissimo libro “Il secondo cervello”: Poiché ci consideriamo speciali, qualsiasi cosa limiti la centralità della condizione umana è inevitabilmente guardata con sospetto, se non con vera e propria ostilità

Il Progetto Genoma Umano, il cui scopo era quello di sequenziare l’intero DNA della nostra specie e di mappare i geni che compongono il nostro genoma, è stato portato a termine oramai 18 anni fa. Ci eravamo illusi che conoscendo a fondo la nostra genetica avremmo potuto trovare la cura per molte malattie. Ma le nostre aspettative sono state deluse. Tanto per cominciare si pensava che la specie umana possedesse centinaia di migliaia di geni. Ne sono stati trovati invece circa 30.000! Una pianta ne possiede 28.000, un verme 18.000. Per alcuni questa differenza non è sufficiente a spiegare la complessità dell’organismo umano rispetto a forme di vita più semplici.

E non è finita qui! Il nostro DNA è per il 99,99% identico a quello di qualsiasi altro essere umano per quanto differente possa esserne l’aspetto. Mentre siamo accumunati da una così profonda similitudine genetica ci dimostriamo molto più avari nel condividere i nostri microbi! Così ad esempio il nostro microbiota intestinale somiglia a quello di altri individui della nostra specie solo per il 10%!

È un’osservazione che diventa ancora più sbalorditiva se pensiamo ai nostri 30.000 geni codificanti proteine a fronte dei 2-20 milioni di geni provenienti dal nostro microbiota! Geneticamente parlando è come dire che siamo “umani” solo per l’1%, per il 99% siamo “microbici”!

Se all’insieme dei nostri geni diamo il nome di genoma, con il termine di microbioma ci riferiamo alla totalità dei geni provenienti dai microrganismi. Esiste un terzo termine che indica la somma di genoma e microbioma ed è ologenoma. È probabile che genoma e microbioma siano in grado di colloquiare tra di loro a mezzo dell’epigenetica cosicché l’ologenoma non può essere inteso solo come la somma di due parti, ma come un ampliamento smisurato del modo in cui “interpretiamo” l’informazione genetica

Potremmo forse concludere che alla base della nostra diversità, anche quella caratteriale ed umorale, non ci sono i geni bensì i batteri?! Una simile visione non sarebbe stata possibile fino a qualche anno fa. I primi studi sul microbiota erano basati sull’utilizzo dei terreni di coltura e sull’analisi al microscopio dei campioni fecali. Con questi metodi, ormai arcaici, sono stati individuati i generi Bacteroides, Clostridium, Fusobacterium, Bifidobacterium, Lactobacillus, Peptospretoccocus, Escherichia e Veillonella. Più recentemente l’utilizzo di tecniche basate sull’identificazione delle sequenze dell’RNA ribosomiale (rRNA) 16S ha consentito di studiare anche quei batteri che per la loro natura anaerobica ed estremofila non sono in grado di crescere sui normali terreni di coltura.

Biofilm e Quorum Sensing

In merito al nostro microbiota potremmo raffigurarci l’immagine pittoresca di una serie di batteri, variegati per forme e per colori, che fluttuano all’interno del lume intestinale ma la realtà è alquanto diversa da ciò che pensiamo. Innanzitutto la mucosa intestinale è coperta da un doppio strato di muco. Lo strato interno, molto denso, è difficile da penetrare. Quello esterno, più lasso, rappresenta l’habitat ideale per i nostri batteri intestinali.

Alloggiati in questa materia dalla consistenza fluida i batteri commensali non se ne stanno ognuno per conto suo ma tendono ad aggregarsi fino a portare alla formazione di biofilm. Per biofilm si intende una comunità ben strutturata di batteri e cellule eucariotiche racchiuse in una matrice polimerica prodotta dalle cellule stesse e che cresce su superfici (inerti o biologiche) soprattutto all’interfaccia con una fase liquida. Si tratta di una sorta di “città microbica” o per certi versi di un “organismo” formato da cellule procariotiche. Tra le funzioni assolte dal biofilm vi è quella di difendersi dal dilavamento, dalla fagocitosi e dall’azione degli antibiotici. In altri termini il biofilm rappresenta una nicchia ecologica in cui si accumulano i nutrienti e in cui la crescita è favorita.

Il concetto di biofilm è ben noto a chi si occupa di malattie trasmissibili. In generale le infezioni da biofilm sono più virulente, più tendenti a cronicizzarsi e più resistenti alle terapie. Il biofilm permette ai batteri di trasferire plasmidi coniugativi o frammenti cromosomali. Tra i geni trasmessi vi sono quelli relativi alla resistenza ad antibiotici o quelli che codificano per enzimi di degradazione delle sostanze organiche. Attraverso le connessioni che si stabiliscono tra i vari batteri (sono coinvolte specifiche strutture chiamate curli e pili) non solo è possibile realizzare il trasferimento orizzontale di materiale genetico ma si assiste anche alla diffusione di informazioni al pari di quello che nel nostro organismo avviene ad opera del Sistema Neuroendocrino. Ed è attraverso questa dinamica che si giunge al fenomeno del Quorum Sensing. Uniti a formare il biofilm i batteri prendono “decisioni sul cosa fare” attraverso un meccanismo molto democratico: o è la gran parte ad essere d’accordo oppure non se ne fa niente. Scoperto negli anni ’60 studiando il batterio luminescente Aliivibrio fischeri, il fenomeno del Quorum Sensing è composto da due elementi: la molecola segnale che interagisce con specifici ligandi presenti sulla membrana cellulare o nel citosol dei batteri e l’attivatore trascrizionale il cui ruolo è quello di attivare o reprimere una serie di geni. Solo quando la molecola segnale è presente oltre un dato valore soglia parte l’azione dell’attivatore trascrizionale che a sua volta determina l’avvio o il blocco di specifici processi cellulari. Dunque quando pensiamo al modo in cui la flora commensale influisce sul nostro umore l’immagine che dobbiamo evocare non è quella dei batteri fluttuanti ma di un organismo dentro l’organismo.

Gli studi sugli animali da laboratorio

Con una massa superiore ad 1 kg la popolazione microbica residente “pesa” quanto il cervello di un individuo adulto. Studiando questo “organo” che fino a pochi anni fa non sapevamo di possedere abbiamo compreso che i nostri batteri si sono co-evoluti con noi e che nel corso dell’evoluzione hanno avuto un ruolo essenziale nel consentire il nostro sviluppo cerebrale. Non stupisce allora sapere che i batteri intestinali oltre a condizionare il nostro stato di salute sono in grado di influenzare anche il nostro stato “mentale”. Gli esperti parlano di un “microbiome-gut-brain-axis” (asse microbiota-intesino-cervello) ad intendere il complicato sistema che collega a doppio binario il nostro cervello ed il nostro intestino con i suoi molteplici ospiti.

L’esempio più emblematico di interazione intestino-cervello ci viene fornito dal Toxoplasma gondii. L’infezione, anche transitoria, ad opera di questo parassita provoca un’alterazione permanente nel comportamento dei topi che perdono ogni diffidenza nei confronti dei gatti. Uscendo allo scoperto il topo infestato si lascia mangiare dal gatto ed è così che il parassita ha l’opportunità di introdursi nell’intestino del felino dove ha luogo la sua fase riproduttiva. Mice Infected with Low-Virulence Strains of Toxoplasma gondii Lose Their Innate Aversion to Cat Urine, Even after Extensive Parasite Clearance. Wendy Marie Ingram et al. 2013.

A livello sperimentale l’analisi della relazione mente-intestino è stata condotta in parte allevando topini sterili o germ-free che poi vengono ricolonizzati con uno o più microrganismi oggetto di studio (germ-free sudies). È nella fase di ricolonizzazione che entra in gioco la tecnica del trapianto di microbiota intestinale o fecal transplantation.

Tra i metodi di indagine più comunemente usati in letteratura ci sono anche i cosiddetti “infections models” nei quali un agente infettivo viene inoculato nell’intestino dell’animale da esperimento e se ne osserva l’impatto sull’aspetto umorale e sul comportamento. Ci sono poi i “probiotic studies” e gli “antibiotic studies”. La letteratura scientifica è ormai ricca di lavori che documentano l’effetto che gli antibiotici esercitano sul nostro sistema nervoso centrale attraverso la modulazione del microbiota intestinale.

Da questa serie di esperimenti abbiamo potuto comprendere che il microbiota intestinale regola i nostri comportamenti più complessi quali ansia, apprendimento e memoria, appetito e sazietà.

Gli studi che coinvolgono uomini e topi

In un recente studio si dimostra che se il donatore di microbiota intestinale è una persona affetta da depressione maggiore il topino che lo riceve va incontro ad serie di cambiamenti neuro-comportamentali che lo rendono in qualche modo depresso (depression-like behavior). Attualmente il trapianto di microbiota  è in uso nel trattamento delle infezioni intestinali da Clostridium difficile resistente ai farmaci. Alla luce di queste evidenze viene da pensare che è opportuno selezionare accuratamente il donatore di materiale fecale che dovrà tra le altre cose possedere un buon profilo psico-biologico. Il rischio per il canditato al trapianto  è quello di risolvere la diarrea da Clostridium al prezzo di una forte depressione.

Serotonina, stipsi e depressione

La stipsi è un disturbo estremamente comune nella popolazione generale e nelle forme più severe si associa ad una rilevante compromissione della qualità di vita. Talvolta è occasionale ma più spesso presenta un andamento cronico. Il criterio essenziale per la diagnosi di stipsi è una riduzione della frequenza evacuativa (<3 evacuazioni/settimana) mentre i sintomi associati sono l’eccessivo sforzo, l’emissione di feci di consistenza aumentata e la messa in atto di manovre manuali al momento della defecazione.

Oltre il 95% della serotonina prodotta nel nostro organismo origina dalle cellule enterocromaffini sparse nella mucosa intestinale. In questa sede il ruolo della serotonina è quello di regolare i movimenti peristaltici promuovendo così la progressione del bolo fecale e contrastando la stipsi. La riflessione puramente empirica è che non è facile trovare uno stitico che non abbia anche un tono depresso dell’umore. Guarda caso i farmaci in uso per il trattamento della depressione sono gli inibitori del reuptake della serotonina (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors o SSRI) e portano i nomi commerciali di Sereupin, Zoloft, Elopram, Cipralex, Prozac, Fevarin e Priligy solo per citarne alcuni. La serotonina è anche nota come l’ormone del buonumore e inibirne la ricaptazione consente di mantenere alta la sua concentrazione a livello della giunzione sinaptica sollecitando positivamente il neurone a valle. Gli esperti hanno ritenuto per lungo tempo che questo fenomeno avvenisse esclusivamente a livello cerebrale non dando importanza alle centinaia di migliaia di cellule enterocromaffini intestinali, vera e propria fucina di questo neuromediatore. Oggi sappiamo che la produzione intestinale di serotonina è influenzata da ciò che mangiamo, dai mediatori chimici prodotti da certe specie microbiche e dai segnali provenienti dal cervello il cui scopo è quello di informare l’intestino sul nostro stato umorale. Sulla base di queste evidenze è lecito domandarsi se in certe forme di depressione la dieta possa fare di più di un antidepressivo e se siano veramente le fibre a risolvere la stipsi o se non sia invece il condizionamento che la dieta ha su questo complesso sistema neuroendocrino.

Conclusioni

Le recenti scoperte sulla relazione mente-intestino aprono le porte ad importanti applicazioni in campo medico. Pensare che possa essere possibile trattare condizioni devastanti come l’autismo, la depressione e la sclerosi multipla mediante un approccio mininvasivo come quello che passa per la modulazione del microbiota intestinale genera un grande entusiasmo

 

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